dal blog élite al narcisismo ossessivo del sé

Ho trovato in rete questa intervista a Lovink  in cui si parla di diversi aspetti secondo me interessanti e riflessioni dopo la pubblicazione del primo capitolo di Zero comment (che uscira’ a giugno) "Blogging, the nihilist impulse".


La parte che mi ha fatto piu’sorridere  e’ stata la sua risposta all’ossessione dei bloggers circa le statistiche e i numeri 🙂  Parla anche delle "briciole di google" in particolare ho trovato molto ben chiaro cosa ha scritto a proposito Scott Karp dopo il discorsetto/annuncio di Chad Hurley a Davos.

Sempre a proposito di Lovink consiglio anche la lettura di "The principal of notworking" disponibile  in formato pdf.

 

Industria dei media al capolinea: parla Geert Lovink

Innanzitutto, puoi spiegarci perché consideri il blogging una pratica nichilista? Ti riferisci all’attuale contesto storico (post-modernità nei Paesi occidentali) o a uno specifico sviluppo del software sociale?
Il blogging è la forma contemporanea di auto-pubblicazione. Ci contestualizziamo con i link a materiale presente altrove in rete e attraverso il cosiddetto blog-roll (una lista dei nostri siti e blog preferiti). L’aspetto nichilista emerge quando confrontiamo questo tipo di comunicazione con quello dei media mainstream che ancora rivendicano di rappresentare il loro pubblico. I blogger non rappresentano altro che se stessi. E in questo senso livellano, azzerano le strutture centralizzate di senso. Le autorità, dal Papa, ai partiti, alla stampa, non influenzano più la nostra visione del mondo. Sempre più persone si allontanano dai ‘vecchi media’ quando sono alla ricerca di senso, informazione, intrattenimento. Niente di scioccante, se non per i giornalisti dell’industria broadcast che restano turbati da questa ovvietà come se fosse un tentativo di delegittimarli.

A proposito delle relazioni con i media mainstream, affermi che i blog non influiscono sulla notiziabilità (gatekeeping), ma sono solo uno strumento di monitoraggio (gatewatching): non creano notizie, sono ‘canali di ritorno’. Non ti sembra però che le contaminazioni con il bookmarking sociale e il giornalismo dal basso contraddicano questa posizione?
I servizi di cui parli non generano un traffico elevato, né tantomeno hanno un forte impatto. Il social bookmarking e i siti di infomazione alternativi sono marginali in confronto ai circa 100 milioni di blogger sparsi per il mondo e alle decine di milioni di utenti di Flickr, MySpace, YouTube. E’ risaputo, ad esempio, che solo una minoranza di iscritti a Digg è responsabile della maggior parte dei post. Una tendenza simile a quella della ‘blog élite’ che si linka vicendevolmente per ottenere traffico e attenzione da parte dei media. Non bisogna pensare a questo ambiente come se fosse esente dalla manipolazione: la decentralizzazione non comporta necessariamente democrazia o un orientamento progressista. La cultura blog negli USA è soprattutto maschile, bianca, conservatrice.
In tutto ciò è interessante posizionare Indymedia. Il progetto aveva funzionalità interessanti già nel 2000. Sfortunatamente, però, ha puntato a diventare un’agenzia di stampa, un portale web, come se non potesse affrontare il suo più vasto aspetto comunitario. Indymedia avrebbe ottenuto più successo lasciando perdere la linea Chomsky-WSF, l’approccio politically-correct verso le ONG, e si fosse lasciata coinvolgere dalla ricca varietà delle sue prime tribù. Poteva contare su aspetti di social-networking e funzionalità multimediali molto interessanti. E’ davvero un peccato che ora dipendiamo da Rupert Murdoch e Google. E non disponiamo di un network sociale del tutto open source e no-profit. Tuttavia, restano spiragli aperti, come ci ha dimostrato la campagna elettorale di Howard Dean, che ha portato a interessanti iniziative.

Nel tuo ultimo saggio ("Blogging, the nihilist impulse") scrivi che i blogger non sono stati capaci finora di trovare un’alternativa all’ideologia mainstream. Credi che il modello ‘top-down’ sia destinato a durare a lungo?
I blog non hanno messo radici nel movimento sociale progressista. Sono critici verso i mass-media americani, ma la tendenza generale è piuttosto conservatrice-liberale. Va comunque riconosciuto loro il merito di aver aperto il panorama dei media in un modo che a internet non era ancora riuscito. Fino a questo momento i media top-down non sono stati in pericolo reale, ma ora i giornali cominciano a rischiare di perdere entrate pubblicitarie. Certo, avremo la tv e i film di Hollywood ancora per molto tempo a venire. Ma può anche darsi che i blog non siano il mezzo ideale per dare una visibilità di massa ai ‘nuovi media’.
D’altro canto, non dovremmo più distinguere la televisione e il cinema per il diverso modo attraverso cui trasmettono le immagini. In Australia, con una felice sintesi, si usa l’espressione ‘screen culture’. Forse non siamo ancora a quel punto, dal momento che ancora permangono discipline e modi di produzione differenziati. Ma alla fine tutto converge verso gli schermi, dai minuscoli cellulari agli schermi urbani giganti. L’immagine in movimento avrà molteplici dispositivi.

Come in ogni comunità, anche nella blogosfera c’è molta autoreferenzialità. Tu fai l’esempio del blogroll, uno strumento progettato per esprimere solo accordo. Come si può superare il problema e favorire la diversità? Sviluppando migliori architetture partecipative?
Non sarebbe una cattiva idea dimenticare per un momento i discorsi sulle comunità e, per dirla con Max Weber, muoverci dalla Gemeinschaft (comunità) alla Gesellschaft (società). Per fare ciò bisogna passare attraverso il software. Le architetture hanno ripercussioni su altre strutture discorsive e sulle relazioni sociali: per questo non dovremmo lasciare il software solo nelle mani dei geek, ma diffondere le competenze tecnologiche tra altri gruppi della società. Ciò di cui abbiamo bisogno sono programmatori agonistici, se posso fare un riferimento a Chantal Mouffe (autrice di "The Democratic Paradox", ndr). Dobbiamo poi comprendere meglio l’importanza degli early-adopter. I milioni di utenti che vengono dopo non hanno la possibilità di cambiare la cultura dei blog o l’estetica di Second Life. E’ davvero un problema non poter linkare ai propri avversari o a chi non ci piace. Il risultato di tutto ciò è un comportamento collettivo conformista e banale. Un altro po’ di tempo e vedremo di nuovo quanto è accaduto con i movimenti sociali e artistici con forti pratiche auto-referenziali. All’inizio sembra una ricchezza ma dopo un po’ le tribù che ruotano intorno a se stesse falliscono. Certo, si tratta di un fenomeno naturale, ma il problema è che internet è qui per restare. E’ per questo che non possiamo abbassare lo sguardo sul software come se fosse un dettaglio. Il software struttura la società del futuro.

Credi che in nome del business si stia alterando l’architettura dei software?
No, non vedo un rischio nella commercializzazione. L’universo dei blog è vasto e ricco. I suggerimenti di servizi come www.problogger.net su come riuscire a vivere con il proprio blog sono a fin di bene, ma pochi autori implementeranno tutte quelle funzionalità extra e cambieranno il modo di scrivere per attirare più utenti. E’ cosa risaputa quanto sia difficile vivere col proprio blog, a meno che non ci si posiziona come "citizen journalist" che contribuisce a quella serie limitata di argomenti che le agenzie e gli opinion leader hanno fissato.

Tu stigmatizzi molto anche un’altra ossessione dei blogger: quella per le statistiche, i numeri…
Perché coltivare atteggiamenti narcisistici e ossessivi del sé? "Io ho più link in entrata dei tuoi". Lasciate perdere, c’è già abbastanza allungamento del pene in rete. Il vero potenziale di internet è la Coda Lunga, come l’ha ben descritta Chris Anderson. E’ una questione cruciale per i freelance, i musicisti, ma anche gli attivisti e i movimenti. Internet ha bisogno di modelli economici sostenibili, andando al di là del dogma che bisogna cedere tutto gratis. Serve un modello non basato sui dati di traffico ma su micro-pagamenti peer-to-peer: moneta vera, non le briciole di Google.

A quanto pare non ti piace molto neanche lo stile PowerPoint dei blog
La critica non c’entra con i gusti. Non importa se mi piacciano o meno le presentazioni. Non incoraggio PowerPoint perché blocca lo sviluppo concettuale. Sintetizza il discorso senza rendere esplicite le linee di pensiero e gli approcci sottostanti. E’ McConoscenza. La scrittura dei blog può essere piacevolmente auto-riflessiva, risultando a volte molto interessante. Il Powerpointilismo riduce la complessità. Il che può essere utile se si vuole attrarre traffico. Ma di fatto si tratta di un approccio di marketing. Non ho niente contro il marketing ma cosa ci resterà da monetizzare? Non dovremmo ridurre il blogging alla produzione di slogan pubblicitari ma praticare forme feroci e selvagge di scrittura in grado di esplorare l’ignoto, non elencare cose che sappiamo già. 

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