Non sono riuscit* a cancellarl* la guerra, il freddo, la fame, la
morte, il terrore, il nemico, non permettiamo che lo faccia la mancanza
di memoria.
Tutte noi partigiane portavamo i pantaloni perché più caldi, più comodi
e pratici, ma Rosina vi aveva rinunciato perché diceva che avrebbero
attirato troppa attenzione sul suo gran sedere
che aveva bisogno
invece di essere ignorato: quindi indossava sempre una veste ampia e
diritta che a suo avviso le nascondeva ogni… esuberanza.
Io avevo
invidia della sua forza e della sua salute che le permettevano di
sopportare con disinvoltura fatiche e veglie, e solo a guardarla
prendevo coscienza del mio fisico troppo esile e anche un po’ fragile.
Un giorno fui in grado di misurare appieno questa sua forza quando la vidi
abbattere un vitello – insolitamente destinato alla nostra mensa
partigiana – con un preciso pugno tra gli occhi: vidi la bestia
barcollare e poi cadere ribaltandosi su un fianco, pronta per
essere sgozzata, ed è certo che tale esibizione mi dette – e mi dà ancora –
un vero sgomento.
Il suo zaino, durante i nostri ripetuti spostamenti, era sempre il più carico
perché vi trasportava, oltre i suoi effetti personali e i caricatori di
riserva, anche quanto poteva occorrere alla madre, con noi alla
macchia, e anche tante erbe medicinali essiccate con le quali, forte
degli insegnamenti paterni, era solita curare tanti nostri piccoli
malanni.
Spesso tornava dai paesini prossimi alla via Flaminia anche con alcune medicine
tra le più conosciute e usate, quali aspirina e sciroppi, con armi e
dinamite, ma soprattutto con vestiario pesante, specie per gli ex
prigionieri di guerra alleati fuggiti dai campi di concentramento dopo
l’armistizio, i quali indossavano indumenti ormai inadatti al clima
dell’inverno.
Quando Rosina appariva nelle aie con il suo grande
zaino ricolmo, tutti i bambini le correvano incontro festosi perché
ormai sapevano che esso conteneva, celate in qualche berretto o in
qualche calza, tante caramelle di vari colori e sapori che solo da poco
temo avevano visto e gustato, ed ella mi diceva poi la sua
soddisfazione per essere riuscita a renderli felici con così poco.
Nei suoi giri clandestini era spesso riuscita a scovare anche qualche
vecchio giocattolo, ma erano così pochi e i bambini così tanti che per
non fare torti alla fine li metteva da parte e li guardava e li
riguardava, forse memore dei suoi giochi infantili con una triste
bambola di pezza.
Rosina aveva la dote della sincerità: non aveva
alcuna remora di dire in faccia a coloro che non le piacevano, Rosina
con la sua cavallina “Ribella”.
Il perché della sua antipatia ed
era facile condividere il suo modo di sentire che a tutta prima poteva
sembrare troppo istintivo e settario, ma che aveva invece precise
ragioni di essere.
Nutriva soprattutto una forte antipatia per i
preti, perché – diceva – tutti quelliche aveva conosciuto li aveva
scoperti falsi e conformisti, perché andavano a benedire, nelle sedi
del Fascioe nelle Caserme, i gagliardetti e le bandiere che i soldati
portavano poi sui fronti della nostra guerra di aggressione, perché
maledivano il marxismo e coloro che ci credevano, perché incapacidi
critica aperta e disinteressata e infine perché in gran parte beoni e
manichei. Aggiungeva di averne conosciuto uno solo in gamba (certamente
si riferiva a Don Giuseppe, parroco di Secchiano), sollecito e amante
del prossimo, rispettoso delle idee altrui, ma che – anche e
soprattutto perché
aveva tali doti – era stato denunciato dai fascisti ai tedeschi, catturato e portato a morire chi sa dove.
Rosina aveva gli stessi occhi grandi e vivi del padre e aveva la sua bontà e il
suo meraviglioso ottimismo. Era sempre affettuosa e gentile, ma quando
si arrabbiava per qualche seria ragione le sue bestemmie stavano alla
pari, per colore e fantasia, con quelle del mio compagno di squadra
Valentino Guerra, che avevo sempre considerato ineguagliabili. In breve
furono conosciute da tutti e nei vari distaccamenti spesso si
commentavano con divertita ironia e se ne plaudiva l’originalità.Una sera fummo entrambe incaricate di portare un messaggio al Comando
del IV battaglione i cui tre distaccamenti, se si eccettuano pochi
altri stranieri, erano formati solamente da jugoslavi. Durante il
tragitto, dopo circa un’ora di cammino, ci ricordammo di non conoscere
la parola d’ordine che ci avrebbe permesso di avvicinarci senza
pericolo alle sue postazioni e ricordammo anche che gli jugoslavi,
esperti di guerriglia, erano sempre in allerta e che sparavano anche
alle ombre che in qualche modo gli apparissero sospette. Il messaggio
era urgente perché il Comando di Brigata aveva deciso, in seguito a
improvvise informazioni, un’azione offensiva da effettuare intorno alle
prime luci dell’alba per la quale si chiedeva anche la loro
partecipazione, e quindi non avevamo davvero il tempo di tornare
indietro
Quando fummo in vista del Comando qualcuno – dal buio –
ordinò l’alt e chiese la parola d’ordine. Ci fermammo immediatamente,
ma il brusco arresto, su quel sentiero impervio e pieno di sassi,
sbilanciò Rosina che inciampò e cadde. Mentre l’aiutavo a rimettersi in
piedi, le sussurrai spaventata: «Cristo! ora ci sparano!» e Rosina mi
rispose ad alta voce con una delle sue più colorite bestemmie. Udimmo
ridere di gusto e poi la stessa voce di prima gridare in tono diverso:
«Venire avanti. Capito, capito, figlia Panichi!». Questo episodio è
senz’altro indice della notorietà raggiunta dalle bestemmie della
Rosina e dal suo modo di agire, sempre franco e istintivo, fuori da
tutti gli schemi, che in breve ne aveva fatto un personaggio conosciuto
e amato. Credo che avesse una simpatia amorosa per un partigiano di
nome Marino e ne fui certa quando la vidi piangere nell’apprendere che
era stato ferito durante un’azione. Le chiesi allora se ne fosse
innamorata, ma mi rispose – ruvida – di pensare ai fatti miei.
Considerata la confidenza che ci univa, rimasi sconcertata dalla sua
brusca risposta.
Ora so che aveva ragione di non dire niente
perché con il tempo ho imparato che i sentimenti d’amore sono un
segreto prezioso da tenere chiuso dentro di noi, che anche le sole
parole possono sciupare.
Non so che fine abbia fatto il suo amore
per Marino, ma è ormai risaputo che il primo amore ha quasi sempre un
seguito impossibile e credo che anche questo non abbia fatto eccezione.
Verso la fine di maggio Rosina si mise in cammino con il padre
alla ricerca del fratello Carlo Leibnecht (1), scomparso durante
l’ultimo rastrellamento tedesco mentre tentava di raggiungere, insieme
ad un compagno, un’altura tenuta da alcuni partigiani polacchi. Lo
cercarono ovunque, sempre più disperati, anche nelle tombe più recenti,
in quelle ancora senza né un’indicazione né un nome. Infine alcuni
contadini li guidarono verso un tumulo sotto il quale si diceva fossero
stati sepolti due giovani fucilati dai tedeschi, subito dopo la loro
cattura nei pressi dell’Alpe della Luna.
Rimossa la poca terra
che li ricopriva apparvero, per prime, le gambe dei due ragazzi. Sui
piedi di uno di essi Rosina riconobbe le calze che lei stessa aveva
confezionato con rimasugli di lana di varie tinte e ricordò che il
fratello gliele aveva chieste in regalo dicendole che quei colori così
vividi lo avrebbero rallegrato ogni qualvolta vi avesse posato lo
sguardo. Tremando e già quasi accecata dalle lacrime chiese ai
contadini che l’accompagnavano di scoprire il volto di colui che le
indossava.
No, non si era sbagliata: il ragazzo con le calze colorate era proprio suo fratello!
Lo chiamò, singhiozzando, con il tenero nomignolo con il quale in
famiglia gli si rivolgevano da sempre: «Lelo, Lelo», mentre suo padre,
vicino a lei, era rimasto muto, annientato dal dolore. Infine qualcuno
ricoprì quei due poveri corpi segnati dagli spari e Rosina mi disse poi
di ricordare di quei momenti terribili solo i colori di quelle calze
che man mano aveva visto sparire sotto ogni nuova palata di terra.
Nei giorni che seguirono Rosina seppe trovare per il padre e per la
madre le parole giuste per farli uscire dalla disperazione e – non so
come – in breve seppe infondere in entrambi una nuova energia ed un
nuovo coraggio.
Presto il rastrellamento del maggio divenne per
tanti di noi solo un brutto ricordo e a giugno e in parte a luglio
fummo tutti impegnati ad attaccare, lungo la via Tifernate e la
Flaminia, il nemico in ritirata verso il Nord.
Rosina spesso fu
ancora al mio fianco, in situazioni a volte comiche e a volte tragiche,
ma non la udii più ridere ne profferire bestemmie, forse perché gioia
ed ira – uno dei tanti binomi della vita – dentro di lei si erano
spente per sempre!
(1) Così come Rosina si chiamava Rosa
Luxemburg Panichi, anche il fratello aveva il nome di un altro martire
socialista tedesco.
Buon 25 Aprile